Mi capita spesso di notare che le persone tentino di nascondere le proprie emozioni perché sintomo di fragilità, soprattutto gli uomini, che se mostrano il loro malessere allora sono codardi. Oggi vorrei sfatare uno di quei falsi miti per cui piangere è un segno di debolezza.
Cerchiamo innanzitutto di analizzare meglio il pianto e di comprendere quale sia la sua funzione per arrivare poi a spiegare come mai non ci rende deboli.
Fin dai primi momenti di vita il pianto fa parte di noi. Quando nasciamo tutti attorno a noi si preoccupano se non piangiamo e quello diventa uno strumento fondamentale per la comunicazione.
Quando ancora non sappiamo parlare ci permette di esprimere i nostri bisogni fondamentali. Da bambini ci aiuta per comunicare dolore e malessere, per esprimere agli adulti intorno a noi il bisogno di essere confortati e rassicurati.
Crescendo, però, impariamo a controllarci, tratteniamo le lacrime, ci nascondiamo se ci capita in pubblico, reprimiamo quello che sentiamo. In realtà ci siamo evoluti con questa capacità.
L’essere umano è, infatti, l’unica specie che utilizza il pianto in maniera emotiva. È quindi stato un passaggio evolutivo fondamentale per la gestione efficace di tutti i nostri stati emotivi intensi, anche quelli positivi.
Perché piangiamo?
Proviamo a spiegare meglio cosa si intende per pianto emotivo e come funziona.
È un pianto che non deriva da alcuna irritazione, come ci capita banalmente perché ci lacrimano gli occhi per il vento o la polvere.
Questo comportamento che ci accompagna per tutta la vita, fin da neonati e anche nell’età adulta. È una modalità universale di esprimere le emozioni: che è accompagnata da alterazioni dell’espressione facciale e vocalizzi, come ad esempio singhiozzi.
Tutti gli eventi emotivi significativi possono essere accompagnati da pianto, sia positivi, come la nascita di un bambino, sia negativi, come un lutto.
Il pianto negli adulti ha due funzioni principali:
- La catarsi che porta al recupero emotivo, con uno scopo puramente personale, ossia di ristabilire un equilibrio interno alla persona senza coinvolgimento dell’altro
- La richiesta di attenzione e aiuto da parte degli altri, in questo senso lo scopo invece è interpersonale perché attiva dei comportamenti negli altri per avere il conforto di cui necessitiamo
Lo stesso Darwin aveva proposto di distinguere tra due reazioni emotive fra loro differenti: una volta a preparare l’organismo a rispondere alle esigenze dell’ambiente e una comunicativa.
Diversi studi confermano come il pianto abbia un valore comunicativo e sociale. Infatti, la percezione di una persona triste suscita empatia e porta maggiormente gli altri ad attivarsi per dare il loro supporto. Per questo motivo il pianto avrebbe un valore adattivo dal punto di vista evolutivo, in quanto aumenta i comportamenti di aiuto negli altri.
Michael Trimble, neurologo dello University College London’s Institute of Neurology, spiega come piangere sia un passaggio fondamentale nell’evoluzione dell’uomo. L’autore descrive come gli uomini avrebbero imparato a piangere per dimostrare le loro emozioni ancora prima di iniziare a usare il linguaggio parlato. Questo è collegato a uno sviluppo dell’autoconsapevolezza e dell’empatia.
Perché se piangiamo siamo deboli?
La vita di tutti i giorni spesso ci porta ad accumulare tensioni che avremmo bisogno di poter esprimere e condividere, ma non sempre riusciamo ad assecondare questo bisogno e concederci i giusti spazi.
Piangere è una reazione naturale al nostro dolore emotivo, se riusciamo ad assecondare questo processo, diventa un vero e proprio strumento di guarigione; ci permette di rimanere in contatto con le nostre emozioni ed occuparcene. Molto spesso, però, questo processo viene bloccato.
Capita a molti di trattenere le proprie emozioni, di non mostrarle all’esterno ma di reprimerle per non sentirle. Quello che accade in questi casi è che si accumulano aumentando il senso di malessere, inoltre impediamo alle persone che ci stanno intorno di comprendere il nostro stato d’animo e rischiamo di allontanarle, smettendo di comunicare con loro. Abbiamo già visto il ruolo fondamentale delle emozioni, anche quello della tristezza, ma c’è la tendenza a bloccare il processo di elaborazione soprattutto se questo riguarda il pianto.
Fin dai primi anni di vita, apprendiamo a comportarci in base ai nostri modelli di comportamento, che vengono inevitabilmente influenzati anche dalla società in cui siamo inseriti.
La tendenza è quella, soprattutto rispetto all’educazione dei bambini, di insegnare a trattenere le emozioni, gestirle senza condividerle e mostrarle. Ai bambini viene spesso suggerito un modello di uomini forti, tutti di un pezzo, che sanno affrontare ogni situazione impavidi, senza paura e senza mai piangere di fronte al dolore.
Vale in particolare per gli uomini ma in generale un po’ per tutti. Ma siamo sicuri che piangere ci renda deboli?
Il vero significato del pianto
In primo luogo quando piangiamo, rimaniamo in contatto con la nostra tristezza, non la ignoriamo. Stare male fa parte della natura degli esseri umani che provano emozioni. Non c’è nulla di debole, è semplicemente ciò che siamo. Quando riusciamo a prenderne consapevolezza comprendiamo come mai non dobbiamo aver paura delle nostre emozioni anche se queste ci portano a piangere. Possiamo farlo senza sentirci in imbarazzo o in colpa.
Inoltre piangere ci permette di sfogare le nostre emozioni negative e come abbiamo visto prima, permette a livello ormonale di diminuire il livello di stress. Quindi più che un segno di debolezza dovremmo vederlo come una cura.
Infine piangere ci permette anche di distaccarci da quelli che sono gli stereotipi della società. Se piangiamo non siamo donne instabili e fragili, non siamo uomini meno virili.
Ci vuole coraggio per essere vulnerabili
Ho recentemente visto Trovare il coraggio di Brenè Brown, si tratta di un documentario di circa un’ora, dove la ricercatrice e scrittrice americana, parla del tema della vulnerabilità e della vergogna.
L’autrice ha lavorato a lungo raccogliendo materiale e interviste da numerose persone, oltre che avendo affrontato un percorso di terapia personale per creare il documentario.
Il messaggio fondamentale è che accettando le proprie imperfezioni, anziché vergognandosi, ci permette ci connetterci con noi stessi e con gli altri.
Per creare connessioni, ossia relazioni profonde con le persone, tra le altre capacità, ci sia quella di essere vulnerabili.
È una caratteristica fondamentale, in quanto non ci rende deboli, bensì molto coraggiosi. Le persone che hanno il coraggio di esprimere la propria vulnerabilità, perché per primi riescono ad accettarla, creano delle relazioni dove possono condividerla oltre che comprendere quella dell’altro. Coloro che sanno di meritare l’amore degli altri accettano la loro vulnerabilità, perché è proprio questa a renderle persone complete.
La vulnerabilità non è solo la capacità di esprimere le proprie emozioni, anche piangendo, ma anche la scelta di fare per primi la prima mossa, per quanto possa funzionare oppure no, di provare a vivere una relazione sentimentale accettando anche il rischio che possa finire.
In generale è l’accettazione della mancanza di controllo su tutto, la capacità di smettere di prevedere ma di vivere ciò che ci accade in maniera consapevole, sia nei momenti positivi che negativi.
Sbagliare, fallire, sentirsi male, piangere fa parte della vita. Quelli sono i momenti dove possiamo apprendere di più, perché capiamo come imparare a navigare in acque turbolente e agitate. Non siamo perfetti, questo non ci rende deboli.
Solo accettando la nostra vulnerabilità e le nostre imperfezioni possiamo iniziare a costruire relazioni vere con le altre persone, perché staremo bene con noi stessi e sapremo mostrarci agli altri senza paura.
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